Vittorio Piergiovanni appartiene al “suo” tempo, agli anni ’50 – ’60 densi, in campo nazionale, di quelle novità stilistiche e di contenuto che il dopoguerra, apertasi finalmente l’Italia ai grandi confronti internazionali nel campo dell’arte e anche della fotografia, aveva favorito.
Se in campo cinematografico si afferma il neorealismo e nelle arti plastiche e figurative irrompe l’informale, la fotografia italiana guarda soprattutto al grande reportage che arriva dagli Stati Uniti e dalla scuola “umanista” francese senza peraltro rinnegare del tutto il formalismo d’anteguerra che trova in Giuseppe Cavalli il suo più estremo e convinto sostenitore.
Altri intellettuali, Donzelli, Crocenzi, Monti, hanno della fotografia una visione più ampia che abbraccia ogni ambito di ricerca senza escludere alcuna applicazione.
Dei tre, è Paolo Monti quello che al pensiero innovatore – che s’ispira alla Subjective Fotografie del tedesco Steinert ma guarda anche all’arte contemporanea che si evidenzia nella Biennale veneziana del 1948 – affianca un’azione pratica duratura (il C.C.F. Di Crocenzi è soprattutto un esperimento elitario di breve durata) dando vita assieme ad altri appassionati al Circolo Fotografico La Gondola. E’ questo un’autentica fucina di talenti che in vasta misura orienterà fino ai primi anni ’60 larga parte della fotografia italiana non professionale.
Il Piergiovanni fotografo gode di una posizione privilegiata; arriva appena undicenne a Venezia dove compie parte degli studi, poi si trasferisce nelle Marche, torna a Venezia dove si laurea e dal 1951 risiede definitivamente ad Ancona.
Complessivamente, sono quasi venti gli anni passati nella città lagunare e anche se in questo periodo ha solo saltuarie occasioni di incontrare quelli della Gondola, tuttavia il “mood” veneziano si insinua nel suo spirito e non lo lascerà più.
E’ innegabile, però, che anche la componente fotografica marchigiano-abruzzese, all’epoca molto attiva – Crocenzi a Fermo, Cavalli a Senigallia e i Circoli di Ancona e Pescara – in una certa misura orienti la sua evoluzione espressiva.
Da tutte queste fonti, Piergiovanni sceglie le modalità a lui più congeniali; è il fotografo delle linee semplici ed essenziali, senza iperboli né ridondanze, che in ogni percorso espressivo, si tratti del paesaggio, del ritratto o della ricerca, arriva dritto al suo scopo.
Una purezza estetica che anticipa, in un certo modo, la grande fotografia giapponese degli anni ’60 e ’70.
Lo aiuta anche la scelta tonale, in alcuni casi il bianco abbagliante delle superfici che ricorda (ma non copia…) l’high key di Giuseppe Cavalli, in altri la scelta montiana delle superfici scabre e rugose affondate nei “neri” tenebrosi.
Manfredo Manfroi